Palabrasenelviento

Palabras en el viento

Archive for giugno 2011

Terra di mari

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Quando ho avuto tra le mani questo disco degli Arangara, di cui avevo ascoltato solo un paio di canzoni dal vivo, nulla lasciava presagire che di lì a poco me ne sarei innamorato. Arangara, a detta della voce nonché fondatore del gruppo, Gianfranco Riccelli, vuol dire semplicemente “arancia”, o al limite “aranceto”. È un disco folk, con testi in gran parte in dialetto calabrese non rintracciabili – pare – in rete.

“Sed Libera” racconta a suo modo fatti e vicende assai antiche, quando nelle strade e nelle campagne ogni morto che si incontrava aveva in corpo più pallottole che ossa, ma è anche assai attuale in alcuni spunti, adattandosi perfettamente al tempo corrente.

“… canzone che si rifà alla poesia ”Littira allu Patritiernu ‘ di Bruno Pelaggi, poeta-scalpellino di Serra San Bruno, che con i suoi versi esacerbati chiedeva giustizia a Dio e inveiva contro le insopportabili ruberìe della classe dirigente ai danni di un popolo calabrese misero e sfruttato, tradito nelle sue attese dal governo della monarchia sabauda.”

Written by Ezio

14 giugno 2011 at 11:24

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Un pezzo difficile… ma anche facile

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Raccontare la scienza anziché divulgarla? Mi chiedo dove sia finita quella curiosità che ha permesso a centinaia di giovani “matti” – come li chiama Loris Ferrari – di scoprire, magari casualmente, cose rivelatesi essenziali per le vicende umane, difficili sì da divulgare ma facili da raccontare. O magari esiste ancora, quella curiosità, rinchiusa nei cassetti più reconditi di qualche multinazionale che paga per tenerli nascosti per il tempo dovuto, o voluto. Si ha come la sensazione, in questo tempo che viviamo, altamente scientifico e tecnologico, che il progresso scientifico stesso tenda ad abbreviare la vita delle teorie scientificamente valide.

Si buttano nella spazzatura cetrioli e altri ortaggi, in questo periodo, nonostante non ci siano notizie di contaminati da Escherichia coli tra i vegani. Immagino che lo si faccia anche perché “divulgare”, in qualcuna delle sue accezioni, può significare “volgarizzare”, “diramare”; mentre il termine “raccontare” mantiene significati che mettono più a proprio agio, quali “esporre” o “spiegare”.

Ed ha ragione, l’amico Mattia – che saluto con un forte abbraccio – soprattutto quando afferma che la scienza non è semplicemente un bene comune ma è il bene comune.
Solo che in questo momento sta tutta (come del resto ogni altra cosa) nelle mani del mercato e appare (almeno a me) assai poco comprensibile nonché assai poco umana.

Articolo pubblicato su Nuovo Paese sera

http://www.paesesera.it/Blog/and-science-for-all/Un-pezzo-facile

Un pezzo facile (?)

(di Mattia Della Rocca)

Raccontare la scienza. Mi sono reso conto che, nelle ultime settimane, ho sempre preferito questa espressione a quella di “divulgazione scientifica”, quando parlavo della mia proposta al Nuovo Paese Sera per questa rubrica. Ripensandoci, ho avuto almeno un paio di motivi per questo.Primo, il termine classico rischia di relegare chi lo usa nello sconfinato limbo dei nerd, e sebbene io sia perfettamente consapevole di trovarmi su una linea di confine, tengo ancora alle mie – seppur già limitate da anni di frequentazione accademica – abilità sociali e relazionali.Secondo, il termine “divulgazione” sembra sempre dare una dimensione verticale, un po’ snob, alla circolazione delle notizie sulla scienza.  Non sono mai riuscito a trovare troppo amabili degli individui in camice bianco che si affacciavano da una cattedra con il compito di “diffondere la verità al popolo”. Chissà da dove nasce questa insofferenza.
Il fatto è che ho sempre pensato “l’esposizione di contenuti scientifici in termini accessibili a un pubblico non specialista” in maniera diversa da quella tradizionale. Più che una traduzione di dati e teorie in un linguaggio di uso comune, la immagino come spettegolare a chi si incontra sull’autobus le migliaia di tracce e sbavature di gesso lasciate sulle lavagne consumate delle Università del mondo intero. Come  ingegnarsi a trovare il modo migliore per parlare di un esperimento mentre si prepara il pranzo domenicale in famiglia. Come cercare le parole giuste per trasmettere il contenuto delle centinaia di articoli che quotidianamente appaiono sulle riviste specializzate a un pubblico non troppo diverso da quello che ogni giorno fa la spesa in quegli stessi quartieri dove i ricercatori vivono tra un progetto e l’altro (un pubblico che, al di là di ogni successiva considerazione, dimostra spesso di possedere sorprendenti competenze in chimica organolettica, soprattutto nelle ore più calde di mercato, quando la competizione per la frutta e le verdure migliori diviene spietata). Come illustrare l’armoniosa bellezza di un modello cognitivo a un’armoniosa bellezza conosciuta nell’isola pedonale del Pigneto, riuscendo contemporaneamente a non essere scaricato prima del secondo giro, solo al bancone del pub e con una copia di Science nella tasca dei pantaloni.
Dicevamo dunque, raccontare la scienza. La scienza per tutti. E tanto per aggiungere, in Italia. Come se non fosse già un arduo compito di per sé.  Ammettiamo da subito che qualche punto problematico c’è, ed è riassumibile nel modo seguente: il grande paradosso della divulgazione scientifica consiste nella sua progressiva scomparsa dalle discussioni di ogni giorno, proprio quando il mondo continua inesorabilmente a trasformarsi in un ambiente sempre più affollato di scienza e tecnologia. In parole povere, sembrerebbe che all’aumentare dei progressi scientifici corrisponda un generale disinteresse a riguardo da parte sia di chi cerca che di chi fa informazione. Certo, vi sono alcune sporadiche eccezioni, ma anche in quei casi, non sempre le notizie scientifiche sono comunicate nella maniera migliore, preferendo spesso un idiota sensazionalismo a un’esposizione strutturata, magari leggera nella forma ma esaustiva nei contenuti. Eppure, cercare di addentrarsi nei risvolti delle scoperte scientifiche contemporanee, a conti fatti, pare essere un’esigenza più sentita di quanto si possa immaginare. Facciamo un esempio?
Proprio mentre scrivo questo primo pezzo – un pezzo facile[1], Mister Feynman ? –  il mio coinquilino osserva dubbioso l’etichetta di un succo di frutta, chiedendosi cosa si celi davvero dietro le sigle degli aromi artificiali. L’anziana signora, mia vicina di casa, sta probabilmente prendendo sonno, mentre pensa a come stare in guardia dal “batterio spagnolo dei cetrioli killer” (giuro, mi ha confidato le sue preoccupazioni esattamente in questi termini, mentre eravamo in fila per pagare il condominio). Persino i due adolescenti che da qualche sera hanno preso l’abitudine di stazionare nel cortile sotto casa rivolgono la loro più totale attenzione verso le stelle – con qualche eccezione per gli sguardi che si lanciano di tanto in tanto, con una certa furtività, alla ricerca di una conferma che li spinga verso il passo successivo del corteggiamento. Quello che avete appena letto potrà sembrarvi uno spaccato di vita qualsiasi di un qualsiasi quartiere romano. Però, riflettendoci bene, modifica sostanzialmente il problema di partenza. Vivendo a metà tra questo mondo di case popolari e quello dove la scienza si fa ogni giorno, si finisce a pensare che le domande sul come divulgare la scienza siano secondarie rispetto al perché. Gerald Edelman, biologo e fondatore del Neurosciences Institute di San Diego, in California, coniò per descrivere la coscienza l’espressione di “presente ricordato”[2]. Ciò di cui siamo coscienti, secondo Edelman, è uno scenario estremamente complesso e coerente in cui ciò che in un dato istante percepiamo si relaziona a migliaia di pensieri, di ricordi, di sensazioni del nostro corpo. Personalmente, quando penso a cosa significhi raccontare la scienza, non riesco a togliermi dalla testa che si tratti in fondo di un compito simile a quello espletato dalla coscienza. Raccogliere le scoperte più interessanti che ogni giorno escono dai centri di ricerca, metterle in collegamento tra di loro, con la società, con gli individui che a questa società danno vita, e infine con l’ambiente fisico in cui essi vivono insieme a milioni di altre specie. Con una metafora da settimanale enigmistico, potremmo dire di «unire i punti da 1 a 5 miliardi», consapevoli che la disposizione di questi punti potrebbe cambiare, nuovi altri se ne potrebbero aggiungere, altri ancora potrebbero sparire dalla mappa. Ma il gioco continuerebbe a valere la candela, perché l’immagine ottenuta sarebbe quella attraverso la quale siamo in grado di comprendere l’universo in cui viviamo.
La verità è che la scienza è un bene comune. Anzi, essa è il bene comune, per eccellenza.Migliaia di persone, in ogni parte del pianeta, lavorano ogni giorno per svelare e accedere ai meccanismi più intimi e complessi della natura. I salari non troppo alti, i piccoli riconoscimenti accumulati faticosamente in anni di fatica e il pessimo cibo dei buffet offerti ai convegni non sono sufficienti a comprendere le motivazioni che spingono così tante menti a dedicare la loro vita alla ricerca. Forse non tutti lo ammetteranno ad alta voce, ma la verità è che chi dedica un’esistenza alla scienza, lo fa perché gli esseri umani possano vivere in maniera sempre più consapevole, sempre più profonda, sempre migliore. Le eccezioni ci sono, ma meno di quanto si possa immaginare. E se questo è l’ideale dietro la ricerca scientifica, allora dovrebbe essere anche quello da cui far partire la divulgazione scientifica.
Raccontare la scienza, insomma, per permettere al mio coinquilino di sapere cosa sono davvero gli additivi alimentari, e come non tutti siano propriamente innocui per la salute, soprattutto dei bambini in età preadolescenziale e con una vulnerabilità verso il deficit di attenzione e iperattività (McCann et al., 2007)[3]. Raccontare la scienza per assicurare un sonno migliore alla mia vicina di casa, e farle capire che Escherichia Coli non è certo una nuova, terrificante minaccia, ma un comune batterio presente da sempre nell’intestino di ognuno di noi (e proprio di lui parleremo fra qualche settimana, in un approfondimento dedicato). Raccontare la scienza per far sì che quei due lì sotto, in cortile, scoprano che i corpi celesti che stanno guardando hanno probabilmente smesso di brillare da secoli, e che questa consapevolezza li porti a riflettere sul tempo, sulla vita, e sul fatto che dovrebbero baciarsi prima che sia ora di tornare a casa (confesso spudoratamente di tifare per lui, che si trova in un chiaro stato di innamoramento folle). E raccontare la scienza magari anche per spiegare a lei che le sensazioni che prova quando lui la fissa con quell’espressione languida, sono influenzate dai segnali che certi neuroni, in grado di riconoscere le azioni altrui e di “simularle” all’interno del suo cervello, le stanno trasmettendo in continuazione fornendo le basi neurali per quel meraviglioso feeling (Rizzolatti, 2004; Gallese, 1998)[4][5]. Se mi leggi, puoi fidarti: è davvero innamorato di te.
Raccontare la scienza, dicevamo all’inizio. Con questo “articolo numero 0” spero di aver spiegato il mio perché – temo che anche il mio personalissimo come abbia iniziato a palesarsi – e soprattutto, spero di aver detto abbastanza e abbastanza poco per solleticare un po’ di curiosità in chi mi legge. Consideratelo per quello che è: un primo, piccolissimo e personale contributo per far sì che la scienza e la vita di ogni giorno possano tornare a camminare a braccetto. Non è mai stato, e forse mai sarà, un cammino facile, ma è proprio questo che rende il tutto interessante. In fondo, ce lo stavamo dicendo prima, ci si prova per permettere a un numero sempre più ampio di persone di svegliarsi al mattino in un mondo più consapevole, più profondo, un mondo migliore.Nell’attesa, per inciso, si potrebbe fare qualcosa per svegliarsi in un mondo dove l’acqua sia ancora pubblica e l’energia non provenga dal nucleare. Vediamo un po’ cosa si può fare a riguardo.

[1] Il titolo di questo pezzo vorrebbe essere un omaggio a FEYNMAN, R. P. (1994). Six Easy Pieces.Essentials of Physics Explained by Its Most Brilliant Teacher, Reading, Perseus (trad.it, Sei pezzi facili, Adelphi, Milano, 2000). Un’insuperabile introduzione ai problemi della fisica contemporanea, capace di condensare in poco più di 200 pagine la curiosità di una vita dedicata alla scienza e il talento di una mente straordinaria, Nobel per la fisica nel 1965. [2] EDELMAN, G. (1990). The Remembered Present: A Biological Theory of Consciousness, New York, Basic Books (trad. it. Il Presente Ricordato, Rizzoli, Milano, 1991) [3] McCANN, D., BARRETT, A., COOPER, A. et al. (2007). Food additives and hyperactive behaviour in 3-year-old and 8/9-year-old children in the community: a randomised, double-blinded, placebo-controlled trial, pubblicato online in Lancet, 6 settembre. [4] RIZZOLATTI, G., CRAIGHERO, L. (2004). The mirror-neuron system, in Annual Review of Neuroscience, 27, pp. 169–192. [5] GALLESE, V., GOLDMAN, A.I. (1998). Mirror neurons and the simulation theory, in Trends in Cognitive Sciences, 2, pp. 493-501.

Written by Ezio

11 giugno 2011 at 14:31

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Controllori e controllati

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“Ti ritieni molto più intelligente di me, deve farti sentire molto… potente.”
“Indifeso, in realtà…”
(Dialogo tra Embeth Davidtz e Antony Hopkins ne “Il caso Thomas Crawford”)

Attualmente (o almeno da una cinquantina d’anni a questa parte) il problema irrisolto risulta essere non tanto il fatto che si compiano falsificazioni scientifiche quanto l’aumento e la concomitante perdita del controllo di tali falsificazioni. Ovvero: Chi controlla eventuali falsificazioni? E chi controlla i controllori? E poi chi controlla coloro che controllano i controllori? E ancora: chi controlla coloro che devono controllare chi controlla coloro che controllano i controllori? E poi… e così via nella più totale schizofrenia del capitalismo scientifico.

C’è grande avversione da parte di molti scienziati indipendenti (Indipendenti? Ma quali? Ma dove? Ma magari!) poiché ne derivano, e per la ricerca e per l’applicazione di questa, danni finanziari e intellettuali (e se fosse solo questo – lo ammetto – sarei dalla parte dei manipolatori o/e falsificatori).

Quel che più dovrebbe preoccupare l’opinione pubblica è però l’aspetto politico del problema, poiché sempre più spesso si tende ad abusare della credibilità acquisita fino al punto da politicizzare gli scienziati e le loro perizie da parte dei politici e dell’opinione pubblica; e, assai spesso, i manipolatori ricevono compensi che un operaio non riceverebbe in tutta una vita lavorativa.
Non troppi anni fa, ad esempio, due scienziati tedeschi direttori di istituti di medicina sociale e medicina del lavoro hanno manipolato e falsificato le loro perizie per anni, permettendo alle assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro di non pagare con le somme dovute poveri cristi infortunatisi durante il lavoro. Questi due professori, dall’alto della loro credibilità, falsificarono tanto abilmente una lunga serie di citazioni venute dalla letteratura scientifica, a favore delle compagnie assicurative. Li falsificarono così bene che molti loro illustri colleghi impiegarono molto tempo per svelarne i trucchi linguistici.
Insomma a me risulta difficile pensare che qualunque esperto, per quanto esperto sia, si possa esporre a tal punto da sostenere un’opinione avversa a quella di chi lo paga magari profumatamente.
Ricerca (scientifica) e capitalismo non vedo proprio come possano andare d’accordo.

P.S.
E così, con questo post, mi evito un commento al bel post di Angie su Veronesi e il finanziamento alla ricerca.

Written by Ezio

9 giugno 2011 at 16:13

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Sei a tre

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Pare sia finalmente finita la battuta di caccia contro Cesare Battisti!

“La decisione di Lula è internazionale, e come tale non può essere contestata da un altro governo.”

Questo hanno detto i giudici brasialiani.

Written by Ezio

8 giugno 2011 at 23:35

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Poeti e cantori da morire

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“Meglio è andarsene leggero,
aquila spoglia di pene…

Il tempo di Bartolomé Hidalgo è assai più antico di Victor Jara o Federico Garcìa Lorca, e finì anche lui, come tanti, dentro una fossa comune, anche se morì di malattia. Poeta e cantore rivoluzionario, nella prima metà dell’800 si unì all’esercito di selvaggi, prima timorosi e sottomessi e poi rivoltosi, di José Artigas. Insieme alle sue ossa, nella fosse comune, pare sia finita anche la sua chitarra.
Hidalgo era solito annunciarsi con le sue strofe lungo le vie di Buenos Aires. Strofe che schernivano il potere e i nemici, che li stanavano fino al punto da renderli riconoscibili.
Sempre al centro di battaglie, facendo suonare la chitarra nei momenti di stasi e le armi nei momenti di bisogno, ha camminato da uomo libero mangiando dalle mani della sua gente e vivendo della loro condivisione. Le sue strofe, scrive Galeano, anche se nude e povere volano ancora nell’aria.

Written by Ezio

8 giugno 2011 at 19:11

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Esta es la realidad

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Recordar la realidad no debe ser chocante.

#SpanishRevolution [ITA] from mikelee on Vimeo.

Written by Ezio

7 giugno 2011 at 12:39

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Dalla parte dei “matti”

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La fine della fisica è stata preannunciata assai spesso, persino un docente di Max Planck, poco prima dell’inizio del novecento, sconsigliò a quello che sarebbe diventato il più famoso dei suoi studenti di  studiare fisica, poiché in questa scienza si era capito quasi tutto e restavano solo pochi problemi che ancora non si inquadravano bene nella teoria, ma che sarebbero stati risolti di lì a poco.
Non saprei (non sono un fisico) cosa aggiungere a quanto afferma Loris Ferrari nell’articolo che segue, se non che un mondo privo di “matti” sarebbe un mondo assai più povero, bisognoso, nonché probabilmente meschino.

“L’atteggiamento dello Scienziato non dovrebbe mai essere quello di negare a priori un Evento. Dovrebbe, piuttosto, essere quello di dichiarare, eventualmente, che non possiede, allo stato attuale, una spiegazione scientifica. La Scienza, insomma, è fatta meno per negare, che per affermare.

Dai giorni della malaugurata “fusione fredda” di Fleischmann e Pons (1989), la comunità scientifica si è divisa. Una minoranza (che per comodità chiameremo “i Matti”) insiste ad affermare che qualcosa accadeva, in quegli esperimenti, e che quel qualcosa, anche se molto inferiore a quanto proclamato inizialmente, valeva la pena studiare. Una larga maggioranza (i Sani) afferma, invece, la totale inconsistenza del fenomeno. Nel ventennio successivo, i canali di informazione dei Matti hanno più volte riportato di anomale emissioni di energia, in condizioni diverse e difficilmente controllabili, con gradi diversi di attendibilità. Unico fattore comune a quasi tutte queste anomalie era il fatto che si verificavano in metalli idrogenati o deuterati: Palladio e Nichel, ad esempio. Questi metalli funzionano da “spugne” di Idrogeno (o Deuterio): lo catturano nella gabbia formata dai loro nuclei e ne assorbono l’unico elettrone fra quelli che formano i legami strutturali del metallo stesso (tecnicamente, elettroni di valenza).

Perché si parla di emissioni “anomale”? Perché la potenza prodotta in questi eventi appare molto più elevata di quanto ci si aspetta dalle reazioni chimiche. Reazioni nucleari, allora? No, perché semplici calcoli ed evidenze sperimentali su nuclei “nudi” (non facenti parte di una struttura solida) mostrano che tali reazioni nucleari sono talmente improbabili da non fornire alcun effetto pratico. Un bel dilemma, dunque. Sempre che non si pensi ad una gigantesca truffa trans-nazionale dei Matti, o ad una loro totale imperizia nell’effettuare le misure. A favore dei Sani, giocava fino a ieri il fatto che queste emissioni erano spesso elusive, di difficile ripetibilità, molto intense, magari, ma sostanzialmente imprevedibili. Quindi, difficilmente catalogabili come Fatti. I Fatti vanno distinti dagli Eventi: i primi sono ripetibili e controllabili, i secondi avvengono e basta. Da Galileo in poi, lo Scienziato si occupa dei primi ed esita a parlare dei secondi. Nel corso della storia, però, molti Eventi sono stati ricondotti alla categoria dei Fatti: i fulmini, le meteore, le comete, le eruzioni vulcaniche, i terremoti. Persino la manna biblica (pare). Proprio per questo, l’atteggiamento dello Scienziato non dovrebbe mai essere quello di negare a priori un Evento. Dovrebbe, piuttosto, essere quello di dichiarare, eventualmente, che esso non possiede, allo stato attuale, una spiegazione scientifica. La Scienza, insomma, è fatta meno per negare che per affermare.

Tornando all’argomento specifico, la situazione, fino a pochi anni fa, era che le emissioni anomale di energia si presentavano come Eventi (un po’ come le Madonnine che piangono lacrime di sangue), il che le esponeva al dubbio sulla loro autenticità (un Fatto è sicuramente reale, un Evento può essere simulato e manipolato) o, comunque, all’impossibilità pratica di accertare la concatenazione cause-effetti, che prevede, come condizione essenziale, la ripetibilità dell’esperimento. Oggi, la situazione appare radicalmente mutata. Studi condotti da Sergio Focardi (Dipartimento di Fisica dell’Università di Bologna), prima in collaborazione con Francesco Piantelli (Università di Siena), poi proseguiti da solo, hanno reso possibile un’emissione di energia da Nichel idrogenato, moderata, ma tale da non potersi spiegare in semplici termini chimici. Di recente, poi, un’apparecchiatura inventata e brevettata da Andrea Rossi, sempre basata sul Nichel idrogenato, ha permesso di produrre una potenza termica molto maggiore, variabile da 25 a 40 Kwatt, a fronte di un’immissione di potenza elettrica nell’ordine di centinaia di watt. Per intenderci: dalla potenza necessaria a tenere accese alcune lampadine ad incandescenza, si ottiene quella assorbita da 10 o 20 lavatrici. La durata delle emissioni supera certamente la decina di ore, né si è ancora rilevata traccia di esaurimento. L’effetto è riproducibile e controllabile.

In pratica, si è passati dall’Evento al Fatto, dal “si dice” al “si misura”. Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Fisica dell’Università di Bologna (Ennio Bonetti, Enrico Campari, Giuseppe Levi, Mauro Villa ed io), oltre a Sergio Focardi (in pensione come Professore Emerito) possono ora studiare l’apparecchiatura di Rossi in modo continuativo ed approfondito. Ci si offre, per la prima volta, una concreta possibilità di vederci chiaro. Stabilito con precisione come avviene il fenomeno (ecco l’importanza della ripetibilità e della controllabilità), si confida che, prima o poi, emergerà anche il perché. Posto che lo si accerti, ciò che rende affascinante l’effetto è che non esistono, a tutt’oggi, spiegazioni convincenti: qual è il “combustibile” che produce l’eccesso di energia? In quanto tempo verrà consumato? C’entra davvero l’energia nucleare? Questa è la curiosità dello Scienziato, la prima e migliore molla possibile verso una ricerca seria. Poi c’è la possibilità di un enorme impatto economico-ambientale. Cosa chiedere di più? Per una volta, mi sembra davvero il caso di dare ascolto ai Matti.”

Loris Ferrari
Professore Associato di Fisica della Materia
Università di Bologna Alma Mater Studiorum

FONTE

Written by Ezio

6 giugno 2011 at 19:21

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Bevagna, musica di mani e di piedi

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“Avevano una falce e mani grandi da contadini.”
(La pianura dei sette fratelli, Gang)

La voce di Gastone Pietrucci la amo come poche altre. Parlo del “timbro”, che è tanto rauco e vibrante da entrare direttamente nello stomaco e che è tanto diverso ma altrettanto bello rispetto alle voci “calde” di un Marino Severini o un Fabrizio De André. Gli è che dal vivo l’aria vibra ancor più di come accade dal disco, oppure è solo una mia sensazione, che ho percepito dopo una bella chiacchierata con questo personaggio straordinario, dopo le prove e poco prima del concerto. Ce ne siamo andati, con mia moglie, con due dischi – gli ultimi due di una trilogia de “La Macina”: “Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto” volume 2 e 3, canti popolari e antichi quanto il mondo ri-arrangiati da La Macina di Gastone Pietrucci con, di tanto in tanto, la chitarra e la voce dei fratelli Severini – e un libro: “Jemece a ffa’ un sonnellino in fondo allo stagno”, scritto da Giorgio Cellinese a cura di Gastone Pietrucci, che leggerò nei prossimi giorni.

Non ho l’abitudine di chiedere canzoni ma ho vivamente sperato che tra le tante cantasse anche questa, di cui avevo scritto tempo fa, ma il regalo è comunque arrivato.

Le mani grandi da contadini, come dice la canzone dei fratelli Severini e come la stretta forte di Gastone quando saluta, sanno raccontare di sé.
La “Maria del campo”, con la pelle d’aria i piedi d’erba e gli occhi di cielo, ad esempio, Leòn Gieco la racconta attraverso le mani: una donna nata nella campagna, carica del peso della fatica ma anche della libertà propria della campagna, dove le mani diventano dure e callose. Una donna non necessita di avere mani morbide, dice Maria mentre porta il miele nella città, là dove non crescono fiori…
Le mani contadine sono grandi e raccontano storie, come appunto quelle dei fratelli Cervi, altre mani sono dure come quelle degli operai, ma raccontano storie anche  quelle lunghe e sottili di un pianista o di un chirurgo.
L’amore che provo per questi musicisti deriva forse dal fatto che sono nati e vivono nella terra in cui è nato mio padre, terra di orizzonti collinari da far perdere il fiato e coltivata ancora, in piccoli luoghi, con metodi assai antichi. Ne comprendo il dialetto, ne condivido la cultura perché lì vivono ancora tanti miei parenti, nonostante il mio esser nato in una grande città.

La “lettura” delle mani, nel ‘900, ha preso il posto di quella dei piedi (non dei piedi intesi come li intende l’amico Nico, che ovviamente era insieme a noi con sua moglie e altri due amici) grazie anche alla diffusione delle calzature. Dopo le rivolte nel ‘500 e ‘600, ad esempio, i viandanti trovavano i piedi nudi dei rivoltosi all’altezza degli occhi – il resto del corpo, immobile, stava sempre più su, appeso ad una corda – e dai piedi imparavano a conoscere il castigato e potevano indovinare cos’era prima. Piedi tagliuzzati dalle pietre, piedi con la pelle dura come il cuoio, piedi induriti dalle marce o segnati dalle catene o piedi segnati dalla musica e dal ballo, che amavano profondamente la terra e chiamavano e incitavano alla rivolta.
I viandanti si contagiavano gli occhi con quei piedi. E capivano.

Nonostante l’apprezzamento per la musica, canzoni che conoscevo e che sono parte ormai della mia vita, sia de La Macina che dei Gang, ciò che ancor più ho apprezzato è stata la totale assenza di riferimenti alla politica, alla costituzione e a tutte le possibili allusioni all’attuale disumana attualità. Come se la musica e solo lei, per una volta, avesse preso il sopravvento, avvisandoci che tutto ciò che ci resta da vivere non sarà un regalo ma qualcosa di dovuto, da prendere e possedere, foss’anche con la forza.

Written by Ezio

4 giugno 2011 at 16:21

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